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Questo è uno spazio dedicato ai nostri clienti. Conoscere tutto il mondo è impossibile. La nostra esperienza si basa soprattutto sulle esperienze di viaggio dei nostri clienti. Sono i nostri migliori reporter ed ecco perché abbiamo voluto dedicare a loro questa pagina.

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CAMBOGIA

Il poliziotto e gli occhiali
L’aeroporto di Siem Reap è alquanto squallido. Pochissimi aerei molto datati, l’edificio degli arrivi di un grigio sporco, è dimesso e triste. Si entra dentro un tetro enorme stanzone scarsamente illuminato. Sul fondo, dietro un massiccio bancone di legno scuro una sfilza di poliziotti in divisa scura, tra cui una donna, seduti su alte sedie ci guardano con una poco accogliente aria arcigna. Un mio tentativo di sorriso rivolto alla donna fallisce miseramente. Sembrava di entrare in un aeroporto delle così dette “repubbliche democratiche” di buona memoria.
Ci attendevamo una minuziosa ispezione doganale, invece nulla. I poliziotti passavano in continuazione i nostri passaporti parlottando tra loro e ogni tanto ci sbirciavano. Dopo un tempo che ci è sembrato lunghissimo ci hanno fatto segno di andare avanti per il visto. Riempiti i moduli aspettiamo. Nell’attesa un giovane poliziotto guarda i miei occhiali da sole, acquistati a Samui per meno di due euro, e mi domanda la marca, se sono water-proof, quando li ho pagati, etc. Poi, senza dirmi nulla, prende gli occhiali che avevo poggiati sul bancone e se li mette guardandomi sorridente. Il tentativo era evidente. Ma la cosa mi aveva infastidito, e mentre veniamo chiamati per il pagamento del visto gli chiedo non molto gentilmente di ridarmi gli occhiali. Poi per stemperare l’atmosfera gli faccio capire che se lo avessi ritrovato alla partenza glieli avrei regalati. Con un sorriso amarognolo me li rende. Dopo altri dieci minuti di palpeggiamento passaporti finalmente viene apposto il timbro e possiamo uscire.
L’autista ci attende con il cartello, saliamo e ci avviamo verso l’albergo.
La città dista un’ora di macchina dall’aeroporto, la strada è deserta. Il terreno arido e polveroso contrasta con le immense foreste pluviali viste dall’aereo. Le case sono rade e dimesse, gli abitanti sono rari. La povertà è tanta, e quasi la si tocca con la mano. Avvicinandoci alla città il paesaggio cambia, più case, più verde, alberi e fiori. La vita si anima, incrociamo centinaia di persone in bicicletta, qualche moto e pochissime auto degli alberghi. La piccola città non è affatto triste, graziosa con giardini fioriti, un lungo fiume veramente ridente, le case dignitose e tutto è molto pulito.
L’albergo dove alloggiamo è un Hotel di charme in stile khmer. C’è un’atmosfera tranquilla, il silenzio è rotto solo dal rumore delle fontane che bellissime zampillano nei laghetti che circondano i bungalow. Il giardino tropicale è lussureggiante con una infinità di fiori di tutti i colori, alberi dalle larghe chiome, rampicanti e ninfee d’acqua. Una meraviglia!
La camera è molto accogliente con grandi vetrate che danno sui giardini, grande letto a baldacchino addobbato di fiori.
Dopo esserci sistemati decidiamo di fare un giro attorno all’albergo. Fuori c’è una moltitudine di gente a piedi e tanta in bicicletta, per lo più sono giovani modestamente vestiti. La maggioranza delle strade non è lastricata, i negozi non per turisti sono spogli, non si vedono bar ma solo rivendite di bibite. La povertà è grande, ma è vissuta con dignità, non si vede un mendicante e la gente ti sorride anche se a volte mestamente.
Rientriamo per la cena nella nostra splendida oasi, ma un filo di tristezza ci accompagna. Il contrasto tra la nostra vita e quella dei cambogiani ci turba. Lo chef del ristorante al quale l’ho domandato, mi dice che il salario di qualsiasi lavoratore non supera gli 80 euro al mese.
Ho capito il poliziotto.

Enzo Cirese
Collelungo 12-01-06


Il “VIAGGIO IN INDIA” di Carla e Pino

Chennai (Madras)
Sveglia alle otto per un giro della città e partenza per Kanchipuram per visitare i templi di Kailanshanatha e di Ekanbaranathar. Troviamo pellegrini che si immergono in una grande vasca per riti di purificazione fisica e spirituale, l’acqua non è molto pulita ma quello che conta è il risultato. All’interno di un tempio un santone bramino esegue un lungo cerimoniale nei nostri confronti per procurarci numerosa prole. Ci rendiamo conto che non ha valutato la nostra età, lasciamo un’offerta e ce ne andiamo sperando negli effetti miracolosi della “manfrina”
All’uscita dal tempio Carla viene assalita dai venditori di pantofole che le propongono irripetibili affari. Purtroppo per loro le contrattazioni hanno esito negativo perché non conoscono quanto è “tosta” mia moglie.

Il giorno dopo,visita alla chiesa di S. Tommaso dove è in corso la S. Messa e partenza per Pondicherry, la strada costeggia il mare dove si vedono ancora i resti del passaggio dello Tsunami.
Sosta a Mahaballiburam per visitare i templi sulla spiaggia dove troviamo anche numerose scuole con i ragazzini che ci salutano chiassosamente.. Stanchi morti arriviamo al villaggio di Swamimalai dove Carla si fa fare un efficace massaggio ayurvedico ai piedi.
Facciamo un giro esplorativo del villaggio dravidico e ci infiliamo anche in una scuola elementare dove su ordine della maestra tutti i bambini scattano sull’attenti e ci danno un cordiale benvenuto.
Il tempo è minaccioso ed il monsone imperversa su tutta l’India del Sud provocando lo sconvolgimento dei nostri programmi. Partiamo per Trichy costeggiando il fiume Kaveri che sta straripando). Visitiamo comunque la spettacolare città tempio di Srirangam. Al ritorno a Tanjore visitiamo Brihadeshwara dedicato al dio Shiva e rimango incuriosito ad osservare il meccanismo diabolico che serve per attirare i fedeli al tempio.

Ci trasferiamo a Madurai e lungo il percorso ci fermiamo in un mercato per gustare delle favolose “piadine” quindi in un villaggio acquistiamo degli ottimi anacardi appena tostati. A Madurai troviamo finalmente un albergo degno di questo nome con un panorama stupendo sulla città, quindi visitiamo il tempio dedicato alla dea Meenakshi. Alla sera, nonostante una pioggia torrenziale ritorniamo (a piedi scalzi) nel tempio per assistere ad una suggestiva processione religiosa. A dire il vero, assistendo allo svolgimento della cerimonia, pareva di stare in un manicomio. La processione è stata breve, forse i personaggi dovevano ancora cenare e avevano bevuto a stomaco vuoto oppure avevano scambiato l’insalata con qualche erba aromatizzata…. Al buio, urlando e cantando, ed al suono di trombe e tamburi i santoni sono usciti da una porta, hanno cominciato a correre come pazzi trasportando in spala una lettiga, si sono poi fermati, hanno messo una scaletta davanti alla porticina della lettiga per far scendere qualcuno che non c’era, visto che nessuno è sceso, (la lettiga era vuota) sono ripartiti di corsa accompagnati da canti e suoni e sono spariti attraverso un'altra porta. La processione era finita. Siamo tornati in albergo alquanto sbigottiti.

Partiamo per Peryar che si trova in una zona montuosa. Escursione in barca sul lago situato nel cuore del Peryar Wildlife Sanctuary per osservare gli animali che si vanno ad abbeverare sperando di vedere le tigri ma ci dobbiamo accontentare degli elefanti, cinghiali, cervi, gazzelle e turisti schiamazzanti.

Trasferimento a Kumarakom attraversando grandi coltivazioni di caffè, the ed alberi della gomma. Lungo i fiumi osserviamo la gente che fa il bucato. Siamo nel cuore del Kerala ed il paesaggio costituito da canali, fiumi e laghi artificiali che attraversano la regione come una ragnatela, con una vegetazione lussureggiante è veramente affascinante.
Veniamo sistemati in un bungalow dove il bagno è situato all’aperto, ossia non c’è il tettoia soltanto una palma ci ripara dal sole, alle pareti meravigliose piante d’orchidee. Carla si sottopone anche ad un trattamento ayurvedico e ne esce quasi nuova. Beata lei!!!!

Il monsone ci sta aspettando. Visitiamo Cochin sotto una pioggia battente ma ci avventuriamo fino al porto per vedere le famose antiche reti cinesi. Giro della città sotto l’ombrello ed alla sera spettacolo di danza al teatro Kathakali. Prima dello spettacolo assistiamo al trucco degli attori sdraiati sul pavimento.

Trasferimento in aereo a Bangalore dove pranziamo festeggiati per il nostro anniversario di matrimonio. Proseguimento per Hassan attraversando un altipiano roccioso e con una strada in condizioni pietose. Arriviamo a tarda sera con le ossa rotte e non ci resta che dormire.

Visitiamo i templi stellari di Halebid e Belur ed al pomeriggio ci rechiamo a Sravanabelgola per la visita del tempio Jainista situato in cima ad una collina dove si trova la gigantesca statua monolitica di Bahubali. Per raggiungere la vetta bisogna salire 500 gradini scavati nella roccia.
Carla sceglie senza indugio l’opzione di farsi portare a spalle sulla portantina mentre io la precedo di corsa per poterla fotografare. Lei arriva in cima fresca come una rosa e la mia lingua arriva in terra per il fiatone. Veniamo benedetti da un bramino che ci cosparge la nuca di cenere profumata, acqua e petali di fiori.

Partenza per Mysore dove veniamo ospitati nel sontuoso Palazzo del Mahraja quindi visita del mercato dei fiori che vengono venduti a peso anziché a mazzi. Infine visita del tempio di Somnathpur e della sontuosa residenza attuale del Maharaja di Mysore.
Il nostro viaggio nell’India del Sud è terminato, partenza per Bangalore e successivamente in aereo per il nostro Paese.


Treno indiano

Il nostro treno partiva alle 23h dalla stazione ferroviaria di Bodhgaya, nel Bihar, la regione più povera dell’India. Lì avevamo visitato il tempio buddista più famoso dell’India, davvero interessante, pieno di fedeli in tunica bianca che, immersi nella meditazione, si aggiravano, nei giardini circostanti. Quel giorno era anche arrivato un importante emissario religioso dal Buthan che, circondato da guardie del corpo armate, pontificava e salmodiava dall’alto di un palchetto collocato in mezzo al parco.

Quella sera ci recammo alla stazione carichi di bagagli e, in attesa dell’arrivo del treno, ci fermammo a mangiare qualcosa nel piazzale antistante: pollo tandoori eccellente.

Dovevamo attraversare gran parte dell’India di notte fino ad arrivare in Orissa, regione orientale piena di fascino e dal clima temperato.

In mancanza di vagoni di prima classe che per noi occidentali sono a malapena paragonabili alle nostre carrozze degli anni ‘50, avevamo prenotato delle cuccette di seconda. Ci avevano garantito che avremmo viaggiato benissimo per tutte le 14 ore che ci attendevano.

Dopo cena, sazi e pronti ad affrontare qualsiasi disagio, ci ponemmo in attesa sulle panche della banchina. Per attraversare la stazione avevamo scavalcato decine di corpi addormentati. Ogni sera le stazioni indiane si riempiono di senzatetto che si organizzano per pernottare.

Avevamo sistemato tutti i bagagli su un grande carretto che avevamo spinto faticosamente su diverse sopraelevate che attraversavano i binari.

Arrivavano molti treni ma il nostro ebbe un ritardo di due ore. Faceva molto freddo e non potevamo allontanarci. La gente dormiva ai nostri piedi o cucinava in terra su antichi fornelli a carbone qualche pietanza semplice che tentava poi di vendere ai viaggiatori.

I treni arrivavano sferragliando lugubri nel buio e nella nebbia.

Qualcuno ci segnalò che il nostro sarebbe arrivato di lì a poco ma su un altro binario. Panico. Dovevamo trasferirci ma, soprattutto, dovevamo spostare velocemente il carro con le valigie ripercorrendo in salita tutte le passerelle.

La prima ad infilarsi nel vagone fu mia figlia, allora quattordicenne, avvezza a seguirci in viaggi disagiati. Si girò verso di noi e disse sconvolta: “Mamma! E’ come il dormitorio di “La Vita è Bella”!”, il triste film di Benigni su un lager nazista.

Le nostre cuccette erano disseminate disordinatamente in diversi vagoni e ciò fece nascere in noi un notevole turbamento: non eravamo tutti insieme. Il vagone consisteva in un unico enorme dormitorio composto da 3 o 4 piani di giacigli, circa 70 in ogni carrozza.

Sopra di me, in un’unica cuccetta, dormiva un’intera famiglia indiana composta di madre e due figli; più sopra si trovava una coppia di coniugi polacchi, e così via…

Il tutto era sorprendentemente pulito e privo di odori fastidiosi. A ciascuno furono dati un lenzuolo ed un cuscino immacolati. Non confidando molto nell’igiene, per precauzione, avevamo acquistato al mercato dei sacchi a pelo che si rivelarono provvidenziali. Infatti ci sigillammo dentro e riuscimmo tutti a dormire a sufficienza.

Nel corso della notte, di tanto in tanto, si spalancavano le porte del vagone e nel corridoi passavano venditori di cibarie varie: dal tè alle fritture di pesce…

Si era accumulato molto ritardo e invece delle 14 ore previste, il viaggio ne durò circa 20.

Al mattino, dalle nostre cuccette, osservavamo la vita di tutta quella gente, a sua volta sorpresa di vedere lì degli occidentali, che pian piano si avvicinava a noi e chiedeva informazioni sul nostro paese. Qualcuno cucinava, qualcuno leggeva, altri conversavano come se fossero a casa loro…Alcuni bambini correvano, ma tutto si svolgeva con serenità e naturalezza. Gli unici ansiosi di arrivare eravamo noi. Per ammazzare il tempo, organizzammo persino un corso di ricamo. Alcune donne infatti si erano incuriosite del lavoro di una di noi.

Arrivammo infine a Bhubaneshwar e lasciammo il treno per trovare un paese nuovo, molto diverso da quello dal quale provenivamo, caldo e piacevole. Lì cominciò un altro bel periodo del nostro viaggio.

Assia

 

Tristan Narvaja, Montevideo – sett. 2003

      
photo © Eugenio P. Spallazzi 2006                                            photo © Eugenio P. Spallazzi 2006

Pochi montevideani probabilmente vi suggerirebbero di visitare il mercato di Tristan Narvaja perché se di chincaglierie o brique-a-braque foste interessati, vi indirizzerebbero al mercato di Plaza Matriz, a ridosso della ciudad vieja, decisamente più “professionale”.

No, il mercato di Tristan Narvaja non potrebbe mai offrire quanto agognato dal turista di passo o da catalogo: il pittoresco.

Al mercato di Tristan Narvaja, ogni domenica mattina, hanno motivo di andarci solo quanti sono irrimediabilmente impelagati con la vita, con la povertà quasi fino al collo. Chi vi si reca – per lo più - ha “la necessità di andarvi” perché quel mercato rappresenta l’unica possibile fonte veramente economica di sostituire un pezzo rotto dell’automobile, un motorino del frullatore, dei bottoni, trovare una scarpa simile a quella con la suola consunta, comprare cibo a buon mercato. Tristan Narvaja prima di tutto, non è un mercato delle pulci. A Tristan Narvaja è prima di tutto, esposta infatti la vita.

La mercanzia può essere esposta sul selciato sconnesso della strada come il tipo davanti a me che con un gesso bianco ha disegnato gli immaginari bordi di un tavolo su cui espone le carabattole in vendita; si vende tutto a 5 pesos.

Un telaio arrugginito di bicicletta fà compagnia a un bicchiere sbeccato e mi domando a chi accidente mai verrebbe in mente di comprarli.

Tristan Narvaja non ha niente di affascinante : è un fottutissimo posto pieno di gente povera – no scusate direi invece “semplice” - che non fà altro che vendere i suoi stracci ad altri “semplici”. Niente di quel genere che definiamo esotico, gustoso, “carino” o “grazioso”. Niente che si possa portare indietro per ricordo a casetta nostra, niente “oggettini-ricordo” di quel ricordo vacuo, annoiato, obbligato a cui ci pieghiamo nei panni del turista, del vacanziere.
Inutili oggetti, come inutile il nostro viaggio.

No, non vale proprio la pena venire in questo luogo di avanzi e di scarti. A meno che…. A meno che non vogliate fare un bagno, una immersione totale nell’umanità che non s’importa se è dura perché tanto va avanti lo stesso. C’è gente d’onore a Tristan Narvaja, forse anche appena uscita di galera.

Ogni volta che vado a Montevideo risalgo la 18 de Julio fino all’incrocio dove svetta il cavallo di Artiguas e da lì a destra – per alcune cuadras – c’è un mercato di vita che mi aspetta a braccia aperte.

Eugenio Spallazzi




Ischia

Pozzuoli 31 Marzo 2006

La vedi là, ancor prima di imbarcarti da Pozzuoli.

Ischia è laggiù. Si materializza ogni minuto di viaggio che passa emergendo dalle idee, dalle vaghe geografiche conoscenze scolastiche, immagini costruite nel tempo sui reportage di qualche rivista patinata.

Procida è appena una distrazione e quando la stai per vedere bene è già passata, falce di pietra in mezzo al mare.

Il sole di quest’ultimo giorno di marzo ce la mette proprio tutta per parlare di primavera. Ischia è una gigantesca scaglia di parmigiano verde schiacciata tra il celeste del cielo e il blu corvino del mare e quando la prua del traghetto supera l’angusta entrata del porto nuovo, quello borbonico, si varca la soglia di un tempo, diverso, quello tutto suo di Ischia.


photo © Eugenio P. Spallazzi 2006


I cani di Ischia

Non so proprio perché ma d’improvviso il quadrupede, cencioso, beatamente steso sul basolato tiepido di Ischia ponte, bastardo di mezza taglia, espressione rilassata, distaccata che nemmeno i rumori delle motorette né i clacson delle auto riesce a scalfire e così troppo beato che non posso non armare la macchina fotografica e sparargli un flash a 30 centimetri dal muso.


photo © Eugenio P. Spallazzi 2006

L’eccelso quadrupede solleva appena l’onorevole palpebra destra e senza muovere un solo pelo del manto pulcioso e sgangherato, snobbando la mia totale presenza, inattesa, richiude l’occhio e risprofonda nella catalessi ischitana del meriggio che tutto sbianca e digerisce.

Inizio a far caso ai cani di Ischia. Ne osservo l’andatura, le espressioni, il colore del pelo. Andatura lenta, comoda; taglia per lo più piccola, volpino per intenderci. I maschi piccoli amano accoppiarsi con le femmine molto più grosse. Sguardo allampanato, a tutto tondo di chi la sa già bella lunga. Intelligentissimi. Il giorno dormono, la sera escono. Tappa al bar del quartiere per una annusata ai cassonetti dell’immondizia che si riempiranno verso notte. Viaggiatori anche: un cane di Testaccio l’ho ritrovato a Ischia Ponte.
A Casamicciola dormono sotto le panchine del corso antistante il porto, nei giardini della piazza e davanti alla pasticceria più importante del paese. Quando passa uno strombazzante corteo nuziale di auto, il cane vicino a me non si caca nessuno e continua a dormire.
A Ischia tre dormono sulla spiaggia, sdraiati accanto alle baracche dei pescatori costruite di ondulato, assi e plastica. A Sant’Angelo un tale ne porta a passeggio tre – volpini sempre – davanti all’ansa del porticciolo. Mi sembrano cani felici e sicuramente i loro colleghi a Roma se la passano peggio.

A Testaccio poco distante dall’albergo, un misto griglia di volpino-husky-setter-breton, mi guarda. Lo inquadro al volo e … flash. Inclina il muso da un lato e rimane così fin quando non mi giro per tornare al bar in piazzetta dove mi aspetta un bel caffè a zerosettanta centesimi di euro.

Un bassotto con il culo da pastore tedesco e il muso da spinone, fruga tra i sacchetti sparsi sull’asfalto accanto al cassonetto. In termini di igiene sono sicuramente più affidabili di mio figlio Enrico.

A Serrara Fontana, dall’autobus in corsa vedo un cane sdraiato sul parapetto dello spiazzo panoramico ma non faccio in tempo a scattargli una foto.

Molti cani li vedo sporti ai terrazzini delle case bianche, il muso tra le inferriate, a volte in un fiume di latrati. Un richiamo burbero viene da dentro casa, dietro le tendine di plastica colorata appese sullo stipite con due chiodi lunghi.

I cani che hanno un padrone non portano il collare. Gli altri, che non hanno un padrone lo stesso.

Di ritorno a Pozzuoli, incrocio il solito volpino ma quando abbasso la macchina fotografica per riprenderlo, diventa uno spirito indiavolato, anzi s’incazza proprio. Il padrone lo richiama. Io sorrido ma dentro di me l’ho mando a pascere. La foto è uno schianto.

Questi cani di Ischia. Davvero. Sembrano diversi.


Integrazione ischitana

L’ambulante è giovane. Una quarantina forse. Sdentato e con la pelle nera. Molto nera. Un cappello ed un maglione di lana scura, un paio di brache di un qualche taglia in più, sandali ingialliti. Soprattutto è subito simpatico.

Artigianato di legno, cammelli, elefanti, leoni: la mercanzia è al sole, ordinatamente stesa su un panno di velluto bordeaux, sul ruvido muricciolo della piazzetta di Sant’Angelo dove pochi turisti - forse del nord Europa – attendono l’arrivo dell’esterna Destra.

Con un aria da saggio se ne sta seduto sotto una roccia, all’ombra, in attesa della curiosità dei passanti. Un vecchio ischitano è seduto dentro il microtaxi di cui sembra il padrone, intento a nettarsi le unghie con un attrezzo di fortuna. Un altro ischitano più giovane dispone alcuni ortaggi sul pianale di un apetto.

Tramonta il sole ormai a quest’ora del pomeriggio, le sei passate e stende su tutto una vaporosa, arancione, secchiata di luce. Arancione le rocce, arancione i legni artistici del nero, arancione il microtaxi e la mia sacca e l’asfalto rugoso della strada.
Il nero si avvicina all’apetto dell’ischitano elogiandolo per la bellezza degli ortaggi e tra questi uno splendido cetriolo.
“Che bello” dice il nero.
“Maturo anche per il culo” risponde il contadino ridendo.
Il nero esita. Non è convinto di aver capito.
“Culo, culo, culo! ”
E se la ride anche il nero ora.
E continuano a ridersela come quei ragazzini di scuola che sono stati, l’ischitano a Ischia e il nero in Africa-chissà-dove.

Jamme, Jamme

Fa parte dell’esperienza ischitana, l’aver preso almeno una volta l’autobus. Meglio se nel tratto tra Sant’Angelo e Ischia, solo in parte paragonabile alla più blasonata costiera amalfitana. Le strade a Ischia offrono quanto di meglio in termini di salite, discese e naturalmente curve con una larghezza della carreggiata decisamente ridotta all’osso (tratto Fontana – Barano). Quando il vostro autobus in discesa incrocia quello che sale, vi si stringeranno anche le natiche. A voi, naturalmente, non al resto dei viaggiatori, abituati più di voi e a cui la cosa non fa né caldo né freddo. Se finite preda dello sconforto, non avete altra possibilità che fissare il pavimento, stampandovi in faccia un aria distaccata, di maschia sufficienza, cuor d’ indiana jones. Ripetetevi mentalmente che è tutto “normale”, che se lo è per tutti quelli seduti attorno a voi sul bus, deve esserlo anche per voi. Punto.

Agli autisti della SEPSA, l’azienda di trasporti pubblici ischitani, va senza ombra di dubbio riconosciuta un’abilità di guida speciale. Ritengo che potrebbe costituire proprio una prova d’esame di guida per qualunque autista di bus urbano. Ci vogliono palle e manico con lo sterzo.

L’apoteosi dell’incastro veicolare l’ho vissuta all’imbarco per il rientro a Pozzuoli.
Sulla strada per il porto attendo in coda con la mia automobilina brum-brum. Il problema sorge quasi subito. Arrivano infatti in porto contemporaneamente due traghetti, quello da Napoli e quello da Pozzuoli. Sarebbe niente se non ormeggiassero uno accanto all’altro e dunque contemporaneamente debbono sbarcare e imbarcare e lo spiazzo è quello che è, cioè niente. La scena ricorda “facite a’mmuina”: chi sta su scende giu, chi sta giù sale su, quelli a destra vanno a sinistra mentre chi sta a sinistra va a destra. I camion che sbarcano vadano avanti, quelli che imbarcano aspettano; no signora il traghetto per Napoli è quello là; le auto gpl devono aspettare; le auto delle forze dell’ordine hanno la precedenza, precedenza a scendere, precedenza a salire; “attenzione, prego, i genitori di Jacopo sono attesi presso gli uffici della capitaneria di porto” gracchia dall’altoparlante una voce; le biciclette possono andare. Che suonate, signò ! Le motorette avanti, avanti. Piano i pulman sennò strusciano la marmitte, Jamme, Jamme !
Ma proprio i pulman davanti e dietro di me sono il problema: quello sbarcato si è incastrato nel vicolo in cui sono fermo, non può andare avanti perché a sua volta un pulman diretto all’imbarco è incastrato tra una vettura parcheggiata e il balcone della casa di fronte; non può nemmeno fare marcia indietro perché nel frattempo si è formata dietro di lui un lungo serpente d’auto che finisce proprio nella poppa del traghetto. L’aria si surriscalda.
“Chiamate i vigili urbani !” urla una voce dalla fila d’auto ma non si capisce chi dovrebbe incaricarsi di questa chiamata. Un tale con l’aria da funzionario (gliela dà una bella cartella di cuoio nero che stringe per un orecchio nella mano sinistra, la camicia bianca, il buon pantalone grigio scuro e una giacca mal abbinata però, grigia) si mette nel frattempo a dirigere il traffico. “Indietro, indietro!” grida al pulman diretto all’imbarco, “che ci fate qui !” . “Sono passato col verde (il semaforo), signore mio!” risponde l’autista del pulman con accento lombardo.
“Indietro, dovete andare tutti indietro”, urla alla fila il funzionario agitando la borsetta per l’aria come stesse scacciando mosche.

A dir il vero mi sarei aspettato a quel punto un concerto di clacson e invece, con una certa sorpresa, niente ! La gente è come rassegnata ma di una rassegnazione composta, civile, non disperata, non afflitta. Sto assistendo ad una lezione di vita: s’impara a prendere le cose diversamente. Anche perché quello che poteva sembrare una via senza uscita, credo grazie a questo atteggiamento di dignitosa rassegnazione, si risolveva – quasi d’incanto. Prima un camion, poi un altro, una motoretta seguita da una punto e mi ritrovo senza più macchine davanti alla mia auto, come svanite nell’aria, rapite nel sole del primo pomeriggio assolato e caldo di questa Ischia.

“Jamme, signò, jamme! Gesticola l’ometto davanti a me, sbracciandosi verso la pedana del traghetto, “Jamme”!

© 2006 Eugenio Spallazzi, Roma

 

Ischia

Un giorno arriva nell' albergo dove lavoro una coppia di Milano, fin qui una cosa normale, ma il bello venne quando si doveva ordinare per il pranzo e per la cena , a questo punto il marito ordinava sempre anche per la moglie , voi penserete che lui fosse gentile , ma così non è lui gli ordinava tutte cose che alla moglie non piacevano, la storia andò avanti per un paio di giorni, fin quando la moglie chiese al marito perchè gli ordinava cose che lei non mangiava, la risposta fu "per tutto l' anno devo mangiare le cose che mi cucini tu e che io non amo così adesso capisci cosa significa"

Francesco Arcidiacono – Maitre de Salle Hotel Saint Raphael di Barano d’Ischia

Questo racconto di viaggio ci è stato gentilmente concesso da Ajahn Chandapalo del monastero buddhista “Santacittarama” con sede a Frasso Sabino (Rieti)

Messaggio dell’Ajahn

Ritornato alla vita del Santacittarama, nuovamente residente dopo una lunga assenza, credo che sia arrivato il momento di dire qualche parola sui miei recenti viaggi. Dopo venticinque anni di vita monastica, gli ultimi dieci dei quali trascorsi alla guida della comunità del Santacittarama, mi era sembrato il momento giusto per prendere una pausa e vivere più come un semplice bhikkhu, libero dai ruoli e dai doveri che gradualmente si tende ad assumere. Il periodo di nove mesi in cui sono stato fuori è stato scandito da tre differenti fasi: inizialmente un ritiro, poi la visita di alcuni paesi Theravada tradizionali e, infine, il soggiorno presso monasteri, in altre parti del mondo, associati al Santacittarama.

Sembra già passato così tanto tempo da quando ho trascorso la scorsa estate in ritiro solitario, prima in Croazia e poi in Slovenia! Ho visitato regolarmente la Slovenia per alcuni anni, e quando i membri del gruppo buddhista sloveno avevano sentito che stavo cercando un posto tranquillo dove poter stare da solo, si erano mostrati assai propensi a sostenermi per i tre mesi del “ritiro della stagione monsonica”. Qualcuno mise gentilmente a disposizione una piccola ma confortevole casa di villeggiatura, situata appena aldilà del confine croato, in una zona spettacolare, nella suprema pace di colline ricoperte di boschi, con una popolazione sparpagliata e ad un’altitudine di oltre 1000 metri. Furono presi accordi con il proprietario di un piccolo ristorante a dieci minuti di cammino di modo che ogni mattina fosse offerto del cibo nella mia ciotola. Mi ambientai presto: la situazione, con poche distrazioni, era estremamente favorevole alla pratica formale, e la mente si acquietò gradualmente, in una maniera completamente naturale. Un’esperienza gioiosa di apertura del cuore, che ha fatto affiorare un profondo senso di gratitudine per tutte le molte benedizioni che ho ricevuto in questa vita. Dopo un po’ la beatitudine si attenuò, e da quel momento ogni cosa fu piuttosto ordinaria, lasciando semplicemente un senso di presenza continua, una leggerezza e un agio dell’essere.

Il primo giorno di luna piena, ad esattamente un mese dall’inizio del ritiro, mi trovai improvvisamente, a causa di una circostanza imprevista, nella condizione di dovermene andare. Fortunatamente i nostri amici sloveni avevano da propormi un’altra possibilità, e così mi trasferii in una fattoria vecchia duecento anni, al limite di un piccolo villaggio rurale chiamato Brezovo, a est di Lubiana. Anche questo posto era molto piacevole e tranquillo: il villaggio era semi-abbandonato e situato in un delizioso scenario pastorale. Proseguii qui il mio ritiro silenzioso per i due mesi successivi, andando a Lubiana un volta ogni due settimane per il regolare incontro del lunedì del gruppo di meditazione della Bhavana Society, fino a quando non giunse il momento di ritornare al Santacittarama per la cerimonia di Kathina.

Dopo una breve permanenza in Italia, e con l’approssimarsi dell’inverno, l’Asia faceva sentire il suo richiamo! Neil, un vecchio amico dei tempi dell’Università, mi aveva invitato per un viaggio in Cambogia e Laos, paesi Theravada tradizionali che stanno entrambi riemergendo dal buio della loro storia recente, e così, dopo qualche giorno di riposo a Bangkok, volammo a Siem Reap, da dove potevamo esplorare alcune delle magnificenti rovine di Angkor. Una moltitudine di rovine di templi estese su di un’area di circa duecento chilometri quadrati, che sbalordiscono nella loro bellezza ed enorme dimensione e nella raffinatezza della loro architettura e scultura, è ciò che resta del grande impero Khmer, che fiorì tra i secoli IX e il XV. Nei tre giorni che avevamo a disposizione, potemmo visitare solo alcuni dei più notevoli e meglio conservati. I siti più antichi erano indù, mentre i più recenti buddhisti, alcuni di questi ultimi costituiti da enormi complessi monastici che ospitavano migliaia di monaci.



Ajahn Chandapalo e Neil presso le rovine del monastero di Ta Prohm, Angkor

 

Ajahn Chandapalo e Neil presso le rovine del monastero di Ta Prohm, Angkor

Imperi e filosofie politiche sono andati e venuti assai numerosi, mentre l’eredità del Buddha è durata per 2600 anni e pur se in Cambogia in tempi recenti è stata soppressa, oggi sembra essere protagonista di un forte ritorno. I monasteri stanno tornando ancora una volta ad essere punti focali delle vite delle persone e si stanno riempiendo di novizi, le cui vesti color arancio brillante sono quotidianamente visibili tra le rovine di Angkor e la città di Siem Reap. La Cambogia è ancora uno dei paesi più poveri del mondo, tuttavia i suoi cittadini sembrano avere una prospettiva positiva e non soffermarsi eccessivamente sul passato, ma guardare ad un futuro potenzialmente più luminoso.

Un battello veloce ci trasportò da Siem Reap attraverso l’immenso lago di Tonle Sap e giù per il fiume fino alla capitale, Phnom Penh, dove trascorremmo solo qualche giorno, che fu abbastanza per visitarne i siti principali: il Palazzo Reale, la Pagoda d’Argento, il museo e lo stupa principale. Phnom Penh è una città grande e vibrante, piacevolmente situata al delta del Mekong, con ampi boulevard alla francese e traffico caotico. E' difficile immaginarla completamente evacuata solo trent’anni fa, quando i Khmer Rossi si impadronirono del potere. Soggiornammo presso l’amichevolissima Bodhi Tree Guesthouse, direttamente di fronte al carcere di Tuol Sleng, entro il quale furono giustiziate almeno ventimila persone, e che è oggi aperto come museo del genocidio, restando un crudo testimone del potenziale di terribile crudeltà del genere umano, pur se in nome di ideali apparentemente nobili.

Il Laos fu sottoposto ad un regime comunista poco dopo la Cambogia, ma l'impatto fu molto meno distruttivo e negli anni recenti si è gradualmente disteso ed aperto al mondo esterno. Volammo a Vientiane e trascorremmo diversi piacevoli giorni girovagando per le strade di quella che è una città così rilassata che è facile dimenticare che è la capitale. I laotiani tendono ad essere molto gentili e di natura amabile. Molti degli uomini che abbiamo incontrato - autisti, marinai, personale delle pensioni - avevano trascorso parte della loro giovinezza come novizi, e di ciò davano mostra le loro maniere.

É stato di grande aiuto conoscere qualcuno a Vientiane, un uomo inglese che era stato ordinato monaco a Chithurst e che aveva poi lasciato l'abito diversi anni fa. Attualmente è sposato con una donna locale e lavora alla Biblioteca Nazionale, oltre a collaborare a vari progetti di aiuto non solo in Laos ma anche in Thailandia e Cambogia. Fummo invitati a stare nel loro nuovo appartamento, nel quale non si erano ancora trasferiti, e prima di alloggiarvi celebrammo una cerimonia tradizionale di benedizione della casa.

Il viaggio in autobus verso nord, in direzione di Luang Prabang, con una sosta a circa metà strada in un villaggio chiamato Vang Vieng, situato in un’affascinante posizione presso un fiume poco profondo, è stato un viaggio epico attraverso uno sbalorditivo scenario di grandi affioramenti calcarei tappezzati di foreste e remoti paesini di collina abitati da popolazioni tribali. Fino a pochi anni fa questa rotta era proibita agli occidentali, poiché gli autobus venivano regolarmente assaliti da banditi.

Luang Prabang è l’antica capitale reale, meritatamente compresa nell’elenco dei Siti del Patrimonio dell'Umanità delle Nazioni Unite. ? davvero un gioiello dell'Asia e non ci siamo pentiti di avervi trascorso più di una settimana. Il cuore della vecchia Luang Prabang è costituito dal That Phousi (“stupa sulla collina”) e da una penisola formata dal fiume Nam Khan che si incurva prima di immettersi nel Mekong. Colline coperte di foreste si dispiegano in tutte le direzioni. Oltre alla particolare atmosfera creata dalla sua posizione, le principali attrattive di Luang Prabang sono gli edifici dei suoi monasteri e dei suoi templi, che in maggioranza sono piuttosto antichi e alcuni semplicemente squisiti nel disegno e nelle proporzioni. I templi e le immagini del Buddha del Laos hanno un fascino unico; non sono tuttavia pezzi da museo: sono molto vissuti e continuano a giocare un ruolo integrato con le vite della gente locale. Il visitatore di un monastero vedrà, a secondo del momento della giornata, giovani monaci, specialmente novizi, che eseguono i canti nel tempio, studiano, lavorano, danno colpi al tamburo del monastero o si esercitano a parlare inglese approfittando della presenza dei visitatori. Poco dopo l’alba, con la foschia che ancora si leva dal Mekong, centinaia di monaci e novizi camminano silenziosamente in fila per il giro delle elemosine, ricevendo nelle loro ciotole le offerte di cibo dei fedeli.

A questo punto del viaggio si unirono a noi Ajahn Sawaeng e Giorgio, un amico di Padova, e dopo qualche altro giorno trascorso godendoci la tranquillità e i fascini gentili di Luang Prabang, le nostre strade si separarono. Neil incominciò il suo viaggio di ritorno verso la Scozia attraverso il Nordest della Thailandia e Bangkok, mentre il resto di noi risalì il fiume con una tradizionale sottile barca del Mekong. Dopo alcune ore, appena superate le grotte di Pak Ou, che ospitano migliaia di immagini del Buddha, risalimmo il fiume Nam Ou in un viaggio che è stato descritto come uno dei più spettacolari del Sud est asiatico. Non rimanemmo delusi! La scomodità di stare seduti e stipati su di una dura panca per otto ore quando ogni singola ansa del fiume dischiudeva nuove viste di picchi di montagna dentellati e lo splendore delle foreste fu facilmente sopportabile. Forse è un cliché, ma i paesaggi sembravano provenire da un dipinto cinese. Le uniche persone che si vedevano erano sporadici pescatori e abitanti dei villaggi che cercavano l’oro con le loro padelle o pascolavano i bufali presso la riva del fiume.

Arrivammo infine a Muang Ngoi (che significa 'piccolo villaggio'), che è un villaggio privo di strade, raggiungibile esclusivamente per via fluviale. Un delizioso posto in cui semplicemente sedere ed immergersi nello scenario. Ci prendemmo un giorno di riposo, e facemmo una breve escursione in alcune grotte e villaggi abitati da minoranze etniche. Nei giorni successivi viaggiammo a tappe, prima in barca, poi con autobus locali e con un’automobile presa in affitto, diretti verso l’estremo nord, vicino al confine cinese, arrivando a Muang Sing in tempo per Natale. Non sono molti i turisti che si spingono così lontano, e lì c’è tutta l’atmosfera di una provincia remota e sottosviluppata. Non vi era certamente traccia del Natale se non per la temperatura sorprendentemente fredda. Storicamente, questa zona è stata a lungo un crocevia tra i paesi circostanti, Birmania, Cina, Vietnam e Thailandia, e ciò si riflette nella mescolanza etnica. Almeno trenta sono i differenti gruppi di minoranze etniche di quest’area, e molti vivono ancora così come sono vissuti per secoli, con i loro particolari costumi e stili di vita. Uno degli aspetti più affascinanti di Muang Sing è la possibilità di osservare l’andare e il venire di differenti gruppi tribali, che spesso vanno e tornano dal mercato, con le donne dalle acconciature e dai costumi assai elaborati e colorati. Una guida ci portò per le colline in un’escursione di una giornata, facendoci visitare alcuni dei villaggi delle minoranze, estremamente primitivi, annidati nelle colline e brulicanti della vita della comunità.

Con i nostri visti prossimi alla scadenza, ci dirigemmo ad ovest in un’automobile a noleggio, in un pittoresco viaggio di ritorno al Mekong, con la Birmania sulla riva opposta. Dopo una notte in un bungalow simile a una kuti sulla riva del fiume, facemmo una corsa esilarante su di un motoscafo attraverso lo scenario di una giungla mozzafiato, tra sfreccianti martin pescatori, cavalcando le rapide ed evitando per un pelo le isolette di roccia e i barconi cinesi che ci venivano incontro. Arrivati al famoso Triangolo d’Oro, dove la Thailandia, la Birmania e il Laos s’incontrano, potemmo attraversare il confine ed entrare in Thailandia, che ci sembrava ora così moderna, sviluppata ed efficiente!

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Il seguito di questo racconto apparirà in una successiva newsletter. Vorrei cogliere qui l’occasione per esprimere la mia sentita riconoscenza a tutti coloro che hanno offerto il proprio contributo in vari modi, e per i loro gentili auguri e per il benvenuto al mio ritorno, e non ultimo vorrei ringraziare il sangha residente per aver dato a ciò la propria benedizione e per avere portato avanti il monastero durante la mia assenza. Questo periodo “sabbatico” mi ha fatto un gran bene. Sono ritornato con rafforzata fede e rinnovato vigore - di fatto non ricordo di essermi mai sentito meglio!

Ajahn Chandapalo

Santacittarama
Monastero Buddhista
02030 Frasso Sabino (RI) Italy
Tel: 0765 872 186 (da martedì a domenica, 7:30-10:30)
Fax: 06 233 238 629 Email: sangha@santacittarama.org

www.santacittarama.org
www.forestsangha.org (portal to wider community of monasteries)
www.dhammatalks.org.uk (audio files)
www.rivertrading.co.uk/dhammathreads (free distribution of books and CDs)

 

Salinas: “más cerca del cielo”.
Destinazione Salinas de Bolívar.

L’ultimo carro per raggiungere il piccolo pueblo andino parte dalla città di Guaranda, capoluogo della provincia di Bolìvar, alle 16, orario oltrepassato il quale, l’unica alternativa praticabile per recarvisi restano le camionete (pick-up adattati a mezzi di trasporto pubblico, che si prodigano per caricare, o più esattamente stipare, sul proprio cassone, di rigore scoperto, quanti più passeggeri possano entrarvi).
Questo mi era stato riferito nel lasciare Quito alla volta di Salinas; pertanto, anche a patto di correre contro il tempo, quel mercoledì di settembre, in cui era stato previsto il mio arrivo a Salinas, dovevo assolutamente affrettarmi per poter essere, puntuale alle ore 16, con tanto di bagaglio e sacco a pelo al seguito, alla fermata o meglio sul tragitto di Candido (non un nome di persona, bensì quello della impresa di trasporti locale che, mettendo a disposizione i suoi torpedoni logori e scalcinati, effettua il servizio di collegamento, ida y vuelta, da Guaranda a Salinas, e che, in questo spicchio di Ecuador, con il trascorrere degli anni, è divenuto, per forza di cose, il sinonimo di autobus).
Alle 4 p.m. mi trovavo, dunque, all’incrocio delle due principali vie di Guaranda (dove era previsto sarebbe transitato, di lì a poco, il bus), proprio sul marciapiedi posto a lambire la vetrina di un negozio di alimentari, dai cui scaffali allettanti pagnotte di pane, dalle forme più diverse, istigavano la mia curiosità di assaggiare nuove varietà di impasto a base di cereali, burro ed uova.
Trascorsi lunghi minuti in attesa, trastullandomi nel piacevole passatempo di osservare, discretamente, la peculiare ed impacciata gestualità degli indigeni (che più tardi rincontrerò nella mia stessa diligenza, quali componenti di una carovana etnica), alle prese con la ginnastica perenne della masticazione , ecco, infine, spuntare, da dietro la curva, l’agognato pullman. Salita sulla corriera, il mio primo impatto con Candido si rivelerà alquanto traumatico: carrozzeria scambiata per una decorazione carnevalesca (con luminarie e tendine impolverate come costume in maschera), sedili consunti (con foderine di rivestimento tutt’altro che candide), ammortizzatori provati dai molti anni di onorato servizio su strade sconnesse e, dulcis in fundo, spifferi a più non posso dai tremolanti finestrini, mi avrebbero intrattenuto nel corso dei 90 minuti di ascesa che mi si prospettavano innanzi.
Malgrado le apparenze, tuttavia tuttavia, infilatosi dopo pochi chilometri nella lattiginosa nebbia della stagione piovosa delle Ande, il mal ridotto mezzo, arrancando su per la strada sterrata, riuscirà a condurmi, giusto al sopraggiungere del crepuscolo, quando in Ecuador stavano per farsi le 17,30, ed in Italia era già mezzanotte inoltrata, sino alla piazza principale del pueblo che mi era stato descritto come un vero e proprio eden tra le nuvole, a soli pochi metri dal cielo: Salinas. A quella immagine di luogo paradisiaco pensavo lungo il tragitto, una immagine che, una volta giunta proprio nell’ombelico di tale luogo da tempo vagheggiato, in quel momento avvolto da una densa foschia e reso spettrale dal silenzio di una giornata uggiosa, sembrava essersi distorta come metallo al calore della fiamma, rassomigliando piuttosto ad una landa desolata, smarritasi oppure dimenticata nell’ombra delle vertiginose cuspidi della cordigliera andina (un ombra in cui, credetemi, il freddo fa rabbrividire nel vero senso della parola, obbligandoti ad indossare due maglioni di lana l’uno sull’altro ed a spalmarti con uno spesso strato di leocrema mani e faccia).
Tale negativa, deludente impressione, però, era destinata a svanire ben presto, in quanto ciò di cui, date le circostanze sfavorevoli, non mi ero potuta rendere conto al mio arrivo ai 3.600 metri di altitudine di Salinas, potei apprezzarlo al risveglio del giorno seguente:……


Questo brano è tratto dal libro scritto da Tania Belli di ritorno dal viaggio fatto in Ecuador nel contesto di una esperienza di cooperazione e sviluppo nel terzo mondo per il tramite della SPICeS, scuola di politica internazionale della ONG italiana FOCSIV. Per poterne continuare la lettura e provare le emozioni avute dalla sua stessa autrice il passato 2005 proprio in questo fantastico micro-mondo che è l’Ecuador, si consiglia, quindi il testo, edito da “Fabio Croce Editore”: “31 giorni in Ecuador: gisto il tempo di lasciarsi graffiare l’anima”, in vendita da meta maggio nelle librerie Feltrinelli, Melbook, Della Stazione etc. di Roma e altre città italiane, o a Rieti da Gulliver, oltre che contattando l’autrice, che ne vorrebbe devolvere una parte del ricavato ad iniziative benefiche in Ecuador, al n° 338 3697392